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tutta la corte, e durò tal ridere tutto quel giorno, e tal-
mente gli entrò in bocca quelle parole di lassamo, di
samallo, di malasso, di lamasso e massallo, che quan-
do volevano del salamo essi ancora, pareva che non
sapessero più dire se non lassamo e samallo e malas-
so, lamasso e massallo, e durò parecchi giorni simil
cosa. Fece poi il Re condurre Bertoldino a casa in car-
roccia; dove arrivato, la Marcolfa disse:
MARCOLFA. Che cosa hai veduto nella città, Bertoldi-
no, che più ti piaccia?
BERTOLDINO. La pentola della cucina del Re.
MARCOLFA. Perché la pentola della cucina del Re?
BERTOLDINO. Perché ella deve tenere più di cento mi-
nestre, tanto ha ella larga la pancia.
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Giulio Cesare Croce - Bertoldo e Bertoldino
MARCOLFA. Sempre tu pensi al mangiare.
BERTOLDINO. Chi non pensa al mangiare non pensa a
vivere, e io so, se non mangiassi, che io morirei.
MARCOLFA. Orsù, tu dici la verità; ma, dimmi un poco,
che hai imparato di bello in corte?
BERTOLDINO. Io ho imparato di andare su e giù per le
scale del palazzo del Re da mia posta.
MARCOLFA. Sei stato un grand uomo certo, e mostri
avere un gran cervello.
BERTOLDINO. Ditemi, mia madre, le anitre sono elle
oche?
MARCOLFA. Sì, sì. Orsù, va pur, dormi un sonno, che a
punto tu dài alle oche con questa tua pecoraggine.
BERTOLDINO. Io vi volevo domandare una cosa ancora,
e me l era quasi scordata.
MARCOLFA. Che cosa è questa, che mi vuoi dimanda-
re? Di su.
BERTOLDINO. Quando voi mi facesti, ci eravate voi?
MARCOLFA. Ohimè, non mi rompere più il capo, ch io
son tanto fastidita del fatto tuo, che io non posso sen-
tirti.
BERTOLDINO. O state a sentire se questa è bella. Men-
tre che io stava in camera della Regina, io mi son ac-
corto ch ella non ha più che due gambe, e la nostra
vacca ne ha quattro. Or che ne dite voi?
MARCOLFA. Che vuoi tu ch io dica? Io dico che quan-
do ti feci avrei fatto meglio a fare una buona torta.
BERTOLDINO. Fuss egli pure stato vero, che n avresti
dato un pezzo a me ancora.
Così con questi ragionamenti venne la sera, e se n an-
darono a letto; poi la mattina si levarono, e la Marcolfa
disse voler andare alla città a comperar del sale e altre
cose necessarie per la casa, e sopra il tutto raccomandò i
pulcini a Bertoldino, che ne avesse cura accioché il nib-
bio non gli furasse. Partita la Marcolfa, Bertoldino prese
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Giulio Cesare Croce - Bertoldo e Bertoldino
tutti i detti polli e gli legò per un piede ciascheduno di
loro, e fattone una lunga filza ne pose un bianco in capo
di tutti, poi gli mise in mezzo l ara, ed esso ritiratosi sot-
to il portico stava poi a veder quello che ne doveva suc-
cedere. Ed ecco il nibbio, che comincia a girare attorno
alla casa e a fare il varco, calando a poco a poco sopra i
detti pulcini, e vedendo quel bianco, che faceva più bel-
la vista delli altri, si calò adosso a quello e, dandogli di
becco, lo levò in aria con tutti gli altri che vi erano attac-
cati; e Bertoldino ridendo forte gridava: «Tira il bianco,
tira il bianco, che tu averai quelli altri ancora!» Così il
nibbio si portò via tutti i pulcini, e, tornata che fu la
Marcolfa dalla città, Bertoldino gli andò incontro riden-
do, ed ella disse:
MARCOLFA. Che cosa hai, che tu ridi? Vi è qualche co-
sa di nuovo?
BERTOLDINO. O mia madre, io ho pur avuto il bel pia-
cere, e quando voi saperete il perché, riderete ancor
voi.
MARCOLFA. Orsù, questa sarà stata una delle tue. E che
piacere è stato questo tuo?
BERTOLDINO. O il bel piacere, o il bel piacere! Mia ma-
dre, di grazia, cominciate a ridere.
MARCOLFA. Di che vuoi ch io rida, di , buffalo, se io
non so quello che tu dica?
BERTOLDINO. Sapete i nostri polli?
MARCOLFA. Sì, ch io lo so.
BERTOLDINO. Io ho fatto una burla al nibbio.
MARCOLFA. Oh, il Cielo mi aiuti! E che burla è stata
questa?
BERTOLDINO. Io li ho legati l uno con l altro in una
lunga filza, ed è venuto il nibbio, e gli ha portati via
tutti in una botta, che ha durato una fatica la maggior
del mondo, e io tenevo gridato: «Tira il bianco, tira il
bianco, che tu averai tutti gli altri ancora!» perché io
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Giulio Cesare Croce - Bertoldo e Bertoldino
avevo messo quel bianco in capo della filza, e se voi
gli avesti veduti saresti creppata dalle risa, a vedere
quell uccellaccio, che a pena poteva portar via tanta
brigata in una volta. Or che ne dite voi? Non ci ho
fatto io stare quell uccellaccio?
MARCOLFA. Uccellaccio sei tu, bestia, balordo. Dun-
que tu hai lasciato portar via i polli al nibbio? Io non
so che mi tenghi ch io non ti pigli pel collo e ch io
non t affochi. O re Alboino, tu mostri bene di essere
balordo affatto, a compiacerti d un pazzo com è que-
sto. Or qui chiaramente si vede che non giova aver
virtù, né creanza, ma sorte sola. Mira, di grazia, quan-
ta stima fa questo pazzo di re (che pur dirò così) di
questo cavallaccio da pistrino. Insomma, ognuno ha
qualche ramo di pazzia, e io son più che sicura che
quando il Re saprà questa castronaggine, che in
iscambio di fargli qualche riprensione, e anco di farlo
bastonare, ch esso ne averà grandissimo piacere e gli
manderà a donare qualche bel presente. O vatti mo
consuma sui libri, povero filosofo, che ne trarrai una
bella mercede, poiché si vede che in questa corte più
vien stimato e premiato un sciocco e balordo monta-
naro, che cento uomini dotti e sapienti. Orsù, il mon-
do va così adesso. Ma dimmi dov è la chioccia?
BERTOLDINO. Ella è serrata nel pollaio, perché non im-
pedisca il nibbio che possa portar via i pulcini,
com haffatto. Credete voi ch io sia balordo?
MARCOLFA. Orsù (pur pazienza) va là in casa, che in
vero tu sei un astuto giovine; ma se questa cosa va
all orecchie del Re, che pensi tu che egli dirà, balordo
mentecato che tu sei?
BERTOLDINO. E chi volete voi che glielo dica?
MARCOLFA. Forse che non sono qui intorno delle orec-
chie che ci odono?
BERTOLDINO. Io non veggio altro che l asino dell orto-
lano, io; il quale appunto pare che ci stia ascoltare.
Letteratura italiana Einaudi 133
Giulio Cesare Croce - Bertoldo e Bertoldino
Vedete come egli tiene l orecchie tese? Ma gli prove-
derò ben io adesso adesso.
Bertoldino taglia l orecchie all asino dell ortolano.
MARCOLFA. Fèrmati, o là, che cosa vuoi tu fare?
BERTOLDINO. Io voglio tagliar l orecchie a questo asi-
naccio che ci sta ascoltare.
MARCOLFA. O meschina me! Egli ha tagliato l orecchie
all asino dell ortolano. Or che dirà egli? Oh, questa è
ben la volta che il Re ci manda a far i fatti nostri; e
avrà ragione, o ribaldo, o traditore!
BERTOLDINO. Ribaldo e traditore è quest asino, che
vuol udire i fatti nostri. Ma tu non gli udirai già più,
che tu non hai l orecchie.
MARCOLFA. Or ecco l ortolano che viene in qua. Tu
l udirai bene dire il fatto suo, e avrà gran ragione, e
converrà che tu gli paghi il suo asino, che gliel hai ab-
bertonato.
ORTOLANO. Chi ha tagliato l orecchie al mio asino?
BERTOLDINO. Son stato io.
ORTOLANO. Per che causa?
BERTOLDINO. Perché egli stava a udire tutti i fatti no-
stri.
ORTOLANO. Orsù, qui non v è bisogno di buffoni. Io
voglio che tu mi paghi il mio asino, e adesso adesso
vado a darti una querela innanzi al Re.
MARCOLFA. Udite, ortolano, non state a dare altramen-
te querela, che io vi sodisfarò. State cheto, e lasciate
far a me.
ORTOLANO. No, no. Io voglio che il Re sappia ogni co-
sa, perché costui l altro giorno ancora si misse attorno
a mia moglie, e vi fu da fare a levargliela dalle mani; e
non vorrei che un giorno gli saltasse l umore e che me
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Giulio Cesare Croce - Bertoldo e Bertoldino
ne facesse una che mi pelasse più che alcuna di que-
ste. Alla città, alla città!
L ortolano va a dare la querela a Bertoldino innanzi al
Re, e il Re manda per lui, ed esso comparisce con le
orecchie dell asino in seno, e il Re dice:
RE. Vien qui, Bertoldino.
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